venerdì 8 febbraio 2013
venerdì 18 gennaio 2013
Camille Claudel, artista maledetta e romantica.
Camille Claudel nasce nel 1864 nella Champagne e fu scultrice e sorella del poeta Paul. Nel 1881, non ancora ventenne, giunge a Parigi, con tutta la famiglia, e incontra quasi subito Auguste Rodin, quarantenne e all’inizio di una carriera favolosa. Il modo di scolpire di Camille ricorda quello di Rodin, quando ancora lei non lo conosce. Ne diviene l’allieva e poi la collaboratrice e , ad un certo punto, l’amante. M.Morhardt (1863-1939),scrittore svizzero, venuto a Parigi nel 1883 dipinge Camille discepola di rodin, come” giovane fanciulla silenziosa e diligente che , lontana dagli ozi, impasta e lavora la terra argillosa”. Ma come fu la coppia Claudel e Rodin? Non vi è traccia di lettere appassionate: probabilmente Camille ebbe per Rodin un sentimento ragionato e misurato. Solo in una lettera Camille si rivolge in tono civettuolo a Rodin “….Sareste così gentile da comperarmi un piccolo costume da bagno blu scuro con guarnizioni bianche? Lo vorrei in due pezzi: blusa e pantaloni (taglia media). Lo troverete al Louvre o al Bon Marchè (in sargia) oppure al Tours. Dormo nuda per credere che voi siate qui con me ma quando mi sveglio non è più la stessa cosa. Soprattutto, non mi ingannate più”.
Camille, viveva con i genitori ed era impensabile, all’epoca, che una ragazza della borghesia fosse l’amante fissa di un quarantenne concubino. Questo sodalizio affettivo e artistico dura diversi anni. Poi, nel 1893, Camille sceglei l’indipendenza e, pur senza rompere con Rodin (la loro relazione cesserà soltanto nel 1898), abbandona il suo atelier. Rodin fece molto per Camille Claudel ma le fece anche molto male. Si parla di quattro aborti, si parla di sfruttamento del talento di Camille….
Verso il 1888-1889 c’è un legame nuovo nella vita di Camille:incontra il musicista Debussy. Non si sa se furono amanti. Si sa che Robert Godet riceveva i due artisti: Debussy al piano suonava i suoi pezzi, Camille ascoltava silenziosa e rapita. Per sempre,sino alla sua morte,Debussy,conservò sul caminetto del suo studio La valse .
Camille Claudel si ritira nel suo domicilio di Boulevard d’Italie trasformato in studio e vive in un disordine tale da stupire i visitatori. Comincia a vivere in semi miseria: è certo che suo padre e suo fratello la aiutano regolarmente di nascosto dalla madre Luoise e dalla sorella. Probabilmente, per vivere, fornisce bozzetti per oggetti utilitari come lampade e posaceneri. Quasi ogni anno, però, presenta delle opere alla Sociètè nationale des Beaux Arts, al Salon d’Automne, a Parigi, in Belgio, a Roma e forse anche a New York. La sua Hamadryde è presentata all’esposizione universale del 1900 e qui incontra Rodin che, a sue spese, fa costruire un intero padiglione per contenere le sue opere.
Camille Claudel vede crescere la fama di Rodin e si sente derubata delle sue idee e dal 1905 Rodin diventa nella mente di Camille la mente di un complotto che vuole annientarla. Dal 1905 Comincia a distruggere le sue opere e dal 1906 cessa ogni attività artistica. Qualche anno più tardi, Camille è internata in un ospedale per malati di mete che lascerà solo da morta nel 1943.
La bella e orgogliosa Camille che scolpì la famiglia, l’amore e l’infanzia, che rappresentò sentimenti umani nella freschezza palpitante dei suoi busti dalla naturale sensualità, che, si dice, fu chiamata da Rodin mentre moriva, finì così la sua vita romantica e fallita: come una vecchia sconosciuta povera e sola.
domenica 13 gennaio 2013
Ma che cos'è il restauro?
“Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell'opera d'arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione nel futuro.” Il primo momento dell'intervento è il riconoscimento dell'opera d'arte come opera d'arte. In mancanza di questo riconoscimento il restauro va inteso come qualsiasi intervento con il fine di ripristinarne la sua piena funzionalità. Prodotto dell'attività umana che si manifesta in una duplice istanza: Istanza estetica, che deriva dalla sua artisticità; Istanza storica, che la qualifica come prodotto umano nato in un certo tempo e luogo. Perciò non è corretto cancellare documenti storici sedimentati sull'opera nel tempo, a meno che non ne alterino l'aspetto estetico. L'Intervento deve primariamente occuparsi della consistenza fisica dell'opera d'arte nella quale si manifesta l'immagine.IL primo pricipio del restauro è che :si restaura solo la materia dell'opera d'arte. MATERIA O.A. costituita di materia nella sua dualità: in tavola dipinta.. Struttura: la tavola è materia come struttura Aspetto: la pittura è materia come aspetto In caso di rimozione di vecchi supporti, permane la necessità che questa operazione non alteri in alcun modo la materia come aspetto ? dipinto su tavola, trasportato su tela, non dovrà mai apparire come un dipinto su tela. Se si perde l'effettualità dell'O.A. rimane solo la materia, solo documento storico= RUDERO, al quale non è applicabile altra operazione che quella di consolidamento o conservazione. Oltre alla materia, è necessario tener conto della LUCE e dello SPAZIO che furono previste dall'artista nel concepimento dell'opera. la rimozione di un'O.A. è giustificata solo da validi motivi di conservazione. Il restauro deve mirare al ristabilimento dell'unità potenziale dell'opera d'arte, perché sia possibile raggiungere ciò senza commettere un falso artistico o falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell'opera d'arte nel tempo.” (Secondo principio di restauro) O.A. non può essere considerata come somma, ha SEMPRE una natura singolarissima. In un polittico, le parti che lo compongono hanno significato di scansione ritmica opera d'arte ha una sola unità. Anche se una o più parti di essa viene perduta. Operazione di restauro con parti mancanti = riesumare l'unità originale, sviluppare la figuratività implicita nell'unità potenziale con intervento integrativo non analogico e che tenga conto di entrambe le istanze (storica e estetica) Intervento di reintegrazione ? sempre riconoscibile e sempre reversibile. Restauro deve tener conto dell'azione del tempo: È doveroso il rispetto della PATINA e la conservazione di campioni dello stato precedente al restauro. La conservazione dell'aggiunta deve ritenersi regolare, eccezionale la rimozione
venerdì 11 gennaio 2013
Tra arte e arte in tavola
La mozzarella
Il termine mozzarella origina dal verbo “mozzare” che consiste nel taglio manuale della pasta filata operato con indice e pollice.
I primi documenti storici sul termine mozzarella risalgono al XII secolo e testimoniano come i monaci del monastero di San Lorenzo in Capua, erano soliti offrire, un formaggio denominato mozza o provatura (quando affumicato), accompagnato da un pezzo di pane, ai pellegrini..
Solo nel 1570 tuttavia appare per la prima volta il termine "mozzarella" in un testo famoso di Bartolomeo Scappi, cuoco della corte papale.
Tuttavia la mozzarella non è rappresentata neanche nel Presepe Napoletano, nel quale, invece, è presente la provola, alla quale è strettamente collegata sia per la mozzatura sia per il termine perché appunto in antico veniva chiamata provatura.
Verso la fine del XVIII secolo le mozzarelle diventano un prodotto di largo consumo, anche grazie alla realizzazione, da parte dei Borboni, di un grosso allevamento di bufale con annesso un caseificio sperimentale per la trasformazione dello stesso latte, nel sito della Reggia di Carditello, la tenuta reale della dinastia spagnola in provincia di Caserta.
Intorno alla metà dell’800, nella piana del Sele, le mozzarelle erano destinate all’uso familiare e non erano commercializzate e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per proteggere la crosta dal deterioramento.
Con l'unificazione dell'Italia fu creata ad Aversa, la "Taverna": un vero e proprio mercato all'ingrosso delle mozzarelle e dei derivati caseari.
La mozzarella veniva ritirata nei luoghi di produzione, già pesata e avvolta in foglie di giunco o di mirto e trasportata fino all'ubicazione del negoziante.
lunedì 7 gennaio 2013
NON si deve Restaurare un'opera d'arte con gli acrilici.NO.
Se devo restaurare un affresco o un decoro a calce devi usare gli stessi prodotti di un tempo e sul cantiere mescolo insieme uova, calce, caseina, olio per preparare i prodotti.
Se lavori con cementi e colori acrilici ottieni un risultato immediato che oltre a non essere consono e sano, può facilmente innescare dei processi veloci di degrado. Ci sono stati restauri realizzati in tempi recenti scoppiati in mille pezzi, solo perché non avevano sotto il supporto adatto. E quando i ci siamo spesso trovati a dover lavorare su intonaci cementizi dove richiedevano decorazioni ad affresco che non riuscivi ad eseguire si raschiano via le coperture acriliche e si torna alla calce naturale. Nell’intervento di risanamento delle murature è fondamentale che anche le fasi successive di decorazione o di tinteggio siano completamente traspiranti perché l’umidità naturale della muratura possa migrare dall’interno all’esterno e viceversa. Le uniche pitture che permettono questa traspirazione sono le calci naturali non additivate e i silicati di potassio, un composto a base minerale ed anch’esso naturale. La differenza tra una calce naturale e una pittura acrilica è che la calce viene assorbita e penetra all’interno dell’intonaco. Gli acrilici invece filmano, sono pellicole di plastica poste al di sopra dell’intonaco che non lo lasciano respirare.”
Dagli anni 60, con l’avvento della petrolchimica e il boom economico il cemento armato si è diffuso come il materiale costruttivo più veloce ed economico. Per quanto riguarda le finiture gli acrilici, con quei colori sgargianti e innaturali davano sicurezza di atemporalità e incorruttibilità .In realtà tutti gli edifici possono invecchiare con dignità conservando “la patina del tempo” Nell’ultima Carta del Restauro è stato scritto un protocollo di interventi per il quale tutto deve essere reversibile. Le pitture acriliche invece stendono come un velo che fanno invecchiare precocemente gli edifici generando fenomeni come umidità, muffa, licheni, freddo e insalubrità. Problemi che possiamo tranquillamente evitare, e spesso correggere, con dei prodotti completamente naturali come la calce non additivata ”.
Certo con la pittura acrilica si farebbe prima, ma il risultato non è mai lo stesso, si perderebbe contrasti e luminosità. Ma il tempo che si impiega nel realizzare l’opera alla fine ripaga, perché le applicazioni naturali, oltre ad essere più belle, durano molto di più”.
INOLTRE restaurare significa rendere leggibile non alterare o ridipingere un’opera d’arte.
giovedì 3 gennaio 2013
Maria Palliggiano:una pittrice rivoluzionaria.
La donna con il vestiro rosso ritratta da Emilio Notte; il manichino che rotola giù dallo scalone dell'Accademia di Belle Arti di Napoli, come annuncio di un gesto estremo che dona la pace ad un animo inquieto, sopraffatto dalla fatica di vivere..Queste due immagini mi balzano alla mente pensando a Maria Palliggiano, allieva dell'Accademia di Napoli, diventata poi artista d'avanguardia ma messa sempre ai margini, suo malgrado, da quello che fu il fermento pittorico della Napoli degli anni 60, con Mario Persico, Luigi Castellano, Lucio del Pezzo, Bruno di Bello, Sergio Fergola e il Gruppo 58.
Maria nacque a Napoli nel 1933.Figlia d'arte (il nonno paterno fu un noto decoratore e il padre Giovanni uno scultore), si diploma all'accademia di Belle Arti di Napoli nel 1954. Negli anni dell'Accademia è nel gruppo degli allievi del futurista Emilio Notte, che rappresentano la giovane avanguardia partenopea (Lucio del Pezzo, Guido Biasi, Carlo Alfano, Gianni Pisani, Mario Persico etc.). Nel '58, dall'unione con Emilio Notte (che poi sposerà nel '64) nasce il figlio Riccardo. Muore a Napoli, suicida, il 19 novembre 1969. Scarse le notizie riguardanti la sua attività, del resto interrotta negli ultimi cinque anni da frequenti ricoveri presso la clinica psichiatrica Colucci di Napoli.
Prima di morire, Maria distrusse molte sue opere: quelle che ci restano sono sopravvissute perchè erano custodite in uno studio fuori mano dall'abitazione dell'artista. Prima di morire, Maria stralciò la sua presenza dai cataloghi, dalle fotografie, dai suo scritti e diari, s'imprgnò in quest'opera di autoestinzione, di dolorosa cancellazione.Una cancellazione voluta e sofferta di una vita imbrigliata dalla consacrazione all'arte e da logiche di mercato, da schemi intellettuali,da tentazioni normalizzanti (l’insegnamento all’Accademia di Bari) e ricatti morali (i rimproveri di madre non abbastanza premurosa).... L'anima della Palliggiano soffoca e trova rifugio nei suoi dipinti densi, pastosi che grondano di una vitalità lacerante(fiore che spacca la terra, 1967).
Esacerbata dall’infedeltà del marito e dall’ipocrisia salottiera, Maria viene ricoverata in clinica psichiatrica dove è ripetutamente sottoposta a terapia elettroconvulsiva. . Nel periodo successivo (galleria inesistente, 1968) partecipa in prima persona alle vulcaniche performance del gruppo di artisti capitanati dall’americano Victor allontanandosi ulteriormente dall’attività del marito e rimediando un’altra devastante delusione sentimentale (Victor la respinge sprezzantemente). Maria si imbottisce di psicofarmaci e sviluppa uno spiccato distacco dalla realtà (rutilante zapan, 1969) che è anticamera e preludio al suicidio, portato a compimento con un colpo di pistola dopo aver strappato minuziosamente le pagine del suo diario.
Le figure della Palliggiano rappresentano i demoni delle nostre anime, il colore è ossessione che deforma, la sua vita tormentata è stata solo la sua disperata volontà di affermare ciò che realmente sentiva di essere, un'artista rivoluzionaria.
La donna con il vestiro rosso ritratta da Emilio Notte; il manichino che rotola giù dallo scalone dell'Accademia di Belle Arti di Napoli, come annuncio di un gesto estremo che dona la pace ad un animo inquieto, sopraffatto dalla fatica di vivere..Queste due immagini mi balzano alla mente pensando a Maria Palliggiano, allieva dell'Accademia di Napoli, diventata poi artista d'avanguardia ma messa sempre ai margini, suo malgrado, da quello che fu il fermento pittorico della Napoli degli anni 60, con Mario Persico, Luigi Castellano, Lucio del Pezzo, Bruno di Bello, Sergio Fergola e il Gruppo 58.
Maria nacque a Napoli nel 1933.Figlia d'arte (il nonno paterno fu un noto decoratore e il padre Giovanni uno scultore), si diploma all'accademia di Belle Arti di Napoli nel 1954. Negli anni dell'Accademia è nel gruppo degli allievi del futurista Emilio Notte, che rappresentano la giovane avanguardia partenopea (Lucio del Pezzo, Guido Biasi, Carlo Alfano, Gianni Pisani, Mario Persico etc.). Nel '58, dall'unione con Emilio Notte (che poi sposerà nel '64) nasce il figlio Riccardo. Muore a Napoli, suicida, il 19 novembre 1969. Scarse le notizie riguardanti la sua attività, del resto interrotta negli ultimi cinque anni da frequenti ricoveri presso la clinica psichiatrica Colucci di Napoli.
Prima di morire, Maria distrusse molte sue opere: quelle che ci restano sono sopravvissute perchè erano custodite in uno studio fuori mano dall'abitazione dell'artista. Prima di morire, Maria stralciò la sua presenza dai cataloghi, dalle fotografie, dai suo scritti e diari, s'imprgnò in quest'opera di autoestinzione, di dolorosa cancellazione.Una cancellazione voluta e sofferta di una vita imbrigliata dalla consacrazione all'arte e da logiche di mercato, da schemi intellettuali,da tentazioni normalizzanti (l’insegnamento all’Accademia di Bari) e ricatti morali (i rimproveri di madre non abbastanza premurosa).... L'anima della Palliggiano soffoca e trova rifugio nei suoi dipinti densi, pastosi che grondano di una vitalità lacerante(fiore che spacca la terra, 1967).
Esacerbata dall’infedeltà del marito e dall’ipocrisia salottiera, Maria viene ricoverata in clinica psichiatrica dove è ripetutamente sottoposta a terapia elettroconvulsiva. . Nel periodo successivo (galleria inesistente, 1968) partecipa in prima persona alle vulcaniche performance del gruppo di artisti capitanati dall’americano Victor allontanandosi ulteriormente dall’attività del marito e rimediando un’altra devastante delusione sentimentale (Victor la respinge sprezzantemente). Maria si imbottisce di psicofarmaci e sviluppa uno spiccato distacco dalla realtà (rutilante zapan, 1969) che è anticamera e preludio al suicidio, portato a compimento con un colpo di pistola dopo aver strappato minuziosamente le pagine del suo diario.
Le figure della Palliggiano rappresentano i demoni delle nostre anime, il colore è ossessione che deforma, la sua vita tormentata è stata solo la sua disperata volontà di affermare ciò che realmente sentiva di essere, un'artista rivoluzionaria.
mercoledì 2 gennaio 2013
Tra arte e arte in tavola
Antichi sapori campani
Come e cosa si mangiava in Campania? Potrebbe essere un viaggio affascinante tra le varie epoche che illumina alcuni aspetti della nostra tradizione.
I prodotti della Campania Felix,nominativo appunto ricollegabile alla fecondità dei poderi tra il Volturno e il Sarno, erano famosi fin dalla prima colonizzazione, mille anni prima di Cristo: ortaggi , frutti ,pesce pescato essenzialmente nei pressi delle coste e di Ischia Capri e Sorrento. Da Baia e Pozzuoli partivano le navi onerarie ricche di derrate e vini rinomati. La base della cucina campana era costituita da cereali, legumi, torte di farina cotte sul fuoco vivo (antenate della pizza?) carni bovine e ovine, pesci di poco costo aromatizzati con erbe. Sulle tavole campane si serviva la prima polenta, una focaccia composta da farina gherigli di noci sbucciate semi di sesamo miele e cannella chiamata Gastritis oppure il Basjma una specie di pan dolce ateniese fatto da farina, miele, uova, fichi secchi e noci.
Con l’arrivo dei Romani l’alimentazione campana cambiò diventando più ricca. Gli stessi patrizi romani si costruiscono case di villeggiatura sul litorale campano creando dei vivai di pesci ,triglie, sogliole, murene e spigole e riserve di caccia. Si sviluppa l’uso delle salse romane per pesci e carni, le cui ricette furono tratte dal re coquinaria del nobile Marco Gavi Apicio. In verità gli Apici furono tre: il primo visse ai tempi di Tiberio,il secondo istituì a Roma la prima scuola di cucina e scrisse i dieci libri del Re coquinaria, il terzo inventò il modo di conservare le ostriche.
I nostri antenati per condire usavano l’olio; il burro era relegato alla funzione di unguento e medicinale. Per dolcificare usavano il miele, per companatico pesce, pollame, cacciagione, carne di maiale e raramente vitello. Si usavano cipolle, aglio, zucche cavoli ecc. mele pere uva noci, fichi e Lucullo, ritornando dall’Asia, iniziò la coltivazione di una pianta che aveva portato con sé: il ciliegio
Per le bevande si usava l vino spesso annacquato o acqua tiepida. In Campania, infatti, la coltura della vite è antichissima: prima gli etruschi e poi i greci coltivarono vigneti di pregio.
Tito Livio cita il torrone d Benevento. Un composto di albume d’uovo, mandorle e nocciole. Un altro dolce antichissimo che risale addirittura alla colonizzazione greca a Napoli è il Susamiello, fatto con sesamo e miele (da qui il nome) e di cui Aistofane ne parla nella “Pace”indicandolo come un dolce che veniva offerto nelle feste nuziali.
In diversi affreschi pompeiani sono dipinti cesti di frutta contenenti fichi e melograni e, nella villa di Poppea ad Oplontis, è rappresentato un dolce, di cui ignoriamo gli ingredienti. Rimanendo ai giorni nostri, si può fa probabilmente risalire al garum romano la colatura di alici tipica di Cetara come potrebbe essere legata al gusto agro dolce della cucina di Apicio l’uso di condire con uva passa la pizza di scarola o le braciole al ragù così come il termine scapee, ovvero le zucchine condite con aceto e menta, potrebbe derivare dal termine ex apicio.
Anche l'impiego del grano nella pastiera, dolce tipico di Pasqua, potrebbe essere legato ai culti di Cerere ed ai riti pagani di fertilità celebrati nel periodo dell'equinozio di primavera. Dal vocabolo greco στργγυλος, stróngylos, che significa "di forma tondeggiante" prendono il nome gli struffoli natalizi. Ed il nome della pizza, infine, deriva probabilmente da pinsa, participio passato del verbo latino pinsere, che vuol dire schiacciare.
Lucullo aveva una splendida villa a Napoli, tra il monte Echia, oggi Pizzofalcone, e l'isolotto di Megaride, dove oggi si trova il castel dell'Ovo. La villa era circondata dal mare, e Lucullo vi aveva fatto costruire vasche per l'allevamento di pesci, in particolare murene, che erano ingredienti per i sontuosi banchetti organizzati dal padrone di casa che resero la villa celebre. Da questi banchetti ebbe origine l'aggettivo luculliano, per indicare una cena molto abbondante e deliziosa.
Dai resti di cibo trovato carbonizzato a Pompei si è confermato che l’alimentazione dei pompeiani era a base di verdura, frutta e pane. Non mancavano il pesce e la carne, soprattutto di pecora e di maiale. Per insaporire i cibi utilizzavano erbe aromatiche, come l’alloro utilizzato anche in campo medico e come pianta decorativa.
Nelle botteghe si vendevano in grande quantità frutta e verdura al punto che Plauto definì i romani “mangiatori di erbe”.. Per avere gli ortaggi anche durante l’inverno si conservavano in salamoia oppure in aceto, mentre la frutta veniva essiccata e immersa nel miele.
Molto diffuso anche il pane, presente già nel II secolo a. C. Gli studiosi hanno scoperto che i panettieri pompeiani sfornavano almeno dieci tipi di pane, più uno speciale biscotto che veniva utilizzato come cibo per cani.
Angela D’Agostino
Stefano Sparano da Caiazzo un notevole artista del cinquecento meridionale.
Nacque a Caiazzo, un piccolo centro in Terra di Lavoro, e, il primo documento concernente alla sua attività risale al 1506 mentre l’ultimo, quello che ci informa che è ancora in vita, del 1545, ne fa ipotizzare la nascita verosimilmente tra il terzultimo e il penultimo decennio del XV secolo. Stefano Sparano, pertanto, esordì durante gli ultimi anni della dominazione aragonese e dispiegò la sua attività nella Napoli vicereale.
Importante per ricostruire la carriera del caiatino è la lettera scritta nel 1524 dal pontaniano Pietro Summonte all’erudito veneziano Marcantonio Michiel nella quale egli dichiara Che«…sono oggi alcuni de’ nostri che cominciano con buona indole: Andrea di Salerno e Stefano di Caiazza».
Illustrativa, la mancata menzione di artisti quali Antoniazzo Romano, Pietro Befulco, Francesco Cicino, Cristoforo Faffeo, Antonio Rimpatta, Antonio Pirri ed altri “quattrocentisti” ancora attivi nel primo Cinquecento, come Cristoforo Scacco, Vincenzo de Rogata, etc.
Sparano avviò anche con qualche anno di anticipo la sua bottega rispetto al Sabatini e comprese subito che Napoli era il centro migliore per stanziare un’attività, e fu tra i primi a prender con sé (probabilmente per la grande quantità di opere commissionate, oltre che per la stima di cui godeva) dei giovani apprendisti.
Il caiatino, poi, decise di assicurarsi una fetta di acquirenti nelle diverse province regnicole proponendo prodotti moderatamente “alla moda”. Si trattava di opere di buona fattura e in qualche modo “rassicuranti”, perché tradizionali nella scelta dell’impaginazione e nell’uso dei consueti sfondi d’oro. Una carriera per certo costellata da una produzione abbondante la sua, estesa sino alle province cilentane e lucane. Per di più le sue opere, se messe a confronto stilistico, dimostrano d’essere modello per il Sabatini ante 1512, oltre che per una serie di artisti provinciali.
La sorte ha voluto però che, a differenza del Salernitano, gran parte delle sue opere andassero distrutte o disperse. Da qui anche il poco spazio riservatogli dalla critica negli ultimi quattro secoli e le discrepanze nella definizione del suo stile. Inoltre, probabilmente i suoi allievi non furono in grado né di diffondere efficacemente la sua maniera tradizionalista, né di aggiornarlo rispetto a quelli della vasta bottega sabatiniana. Piuttosto lo banalizzarono e lo semplificarono ulteriormente. Lo stile sabatiniano ebbe grande successo perché divenne eccentrico nelle forme, via via sempre più accattivante. Le lezioni di Andrea da Salerno si svilupparono e vissero autonomamente dal loro maestro ispiratore. Per lo Sparano, almeno quello a noi noto, questo non accadde.
Nel 1619 il cronista Ottavio Melchiorri descrive Caiazzo, come luogo di arti e cultura, località che vantava ben due Accademie letterarie e svariati circoli artistici. Uomini illustri, artisti ed insigni giuristi vi s’incontravano per coltivare gli otia letterari. L’erudito cita, con grande enfasi, tre maestri: Andrea di Zuccaro, Bernardino de Laurentis e Stefano Sparano.Importante per ricostruire la carriera del caiatino è la lettera scritta nel 1524 dal pontaniano Pietro Summonte all’erudito veneziano Marcantonio Michiel nella quale egli dichiara Che«…sono oggi alcuni de’ nostri che cominciano con buona indole: Andrea di Salerno e Stefano di Caiazza».
Illustrativa, la mancata menzione di artisti quali Antoniazzo Romano, Pietro Befulco, Francesco Cicino, Cristoforo Faffeo, Antonio Rimpatta, Antonio Pirri ed altri “quattrocentisti” ancora attivi nel primo Cinquecento, come Cristoforo Scacco, Vincenzo de Rogata, etc.
Sparano avviò anche con qualche anno di anticipo la sua bottega rispetto al Sabatini e comprese subito che Napoli era il centro migliore per stanziare un’attività, e fu tra i primi a prender con sé (probabilmente per la grande quantità di opere commissionate, oltre che per la stima di cui godeva) dei giovani apprendisti.
Il caiatino, poi, decise di assicurarsi una fetta di acquirenti nelle diverse province regnicole proponendo prodotti moderatamente “alla moda”. Si trattava di opere di buona fattura e in qualche modo “rassicuranti”, perché tradizionali nella scelta dell’impaginazione e nell’uso dei consueti sfondi d’oro. Una carriera per certo costellata da una produzione abbondante la sua, estesa sino alle province cilentane e lucane. Per di più le sue opere, se messe a confronto stilistico, dimostrano d’essere modello per il Sabatini ante 1512, oltre che per una serie di artisti provinciali.
La sorte ha voluto però che, a differenza del Salernitano, gran parte delle sue opere andassero distrutte o disperse. Da qui anche il poco spazio riservatogli dalla critica negli ultimi quattro secoli e le discrepanze nella definizione del suo stile. Inoltre, probabilmente i suoi allievi non furono in grado né di diffondere efficacemente la sua maniera tradizionalista, né di aggiornarlo rispetto a quelli della vasta bottega sabatiniana. Piuttosto lo banalizzarono e lo semplificarono ulteriormente. Lo stile sabatiniano ebbe grande successo perché divenne eccentrico nelle forme, via via sempre più accattivante. Le lezioni di Andrea da Salerno si svilupparono e vissero autonomamente dal loro maestro ispiratore. Per lo Sparano, almeno quello a noi noto, questo non accadde.
Dei primi due non fornisce dati relativi ai lavori compiuti, ma sullo Sparano (citato con accenti forse sin troppo lusinghieri) ci informa dell’esistenza di due tavole nel Duomo di Caiazzo, rappresentanti i Santi Stefano e Ferrante. Cita anche “altre opere sue in altri luoghi”, tra le quali una icona nella chiesa di S.Lorenzo Maggiore a Napoli. Nelle poche righe del Melchiorri è menzionato anche un discepolato dello Sparano presso la bottega di Raffaello a Roma. Questa puntualizzazione è accreditata dalla critica come mero espediente “agiografico” volto a eguagliarlo al rivale Andrea Sabatini.
Nel 1885, il principe di Satriano Gaetano Filangieri pubblica, nel terzo volume dei suoi Documenti…, ben otto testimonianze d’archivio dell’attività di Stefano Sparano.
Delle opere di Sparano citate, oltre al famoso trittico tutt’oggi esistente nella chiesa di S. Antonio a Portici (1513), opera fondamentale perché punto di partenza indiscusso per la ricostruzione critica, è stata riconosciuta dagli studiosi novecenteschi anche il polittico, testimone della fase “centrale” dell’evoluzione stilistica di Sparano, commissionatagli per il monastero dei SS.Pietro e Sebastiano a Napoli. Opera sulla quale Filangieri è dubbioso riguardo alla paternità, sia per lo stile differente rispetto all’inconfutabile opera porticense, sia per le misure discordanti da quelle riportate dal documento d’esecuzione del 1507.
Perduta o andata distrutta è invece l’altra opera citata nei documenti (1509), commissionata al pittore dall’abate Tommaso Sersale per una cappella del Duomo di Sorrento. A tal proposito il Filangieri ipotizza che la cappella Sersale, cui era destinata l’opera, fosse quella al lato sinistro dell’altare maggiore, dalla parte dell’Evangelo.
Nel 1907 il Borzelli ci fornisce indirettamente, attraverso un articolo nel quale sono trascritti gli atti di un processo al pittore Pietro Negroni, tenutosi nel 1545 a Napoli, un prezioso dato relativo agli ultimi anni della carriera dello Sparano.
Tra la serie di persone convocate in veste di testimoni dalla parte avversa al Negroni, ecco sfilare nel tribunale tra gli altri anche “lo magnifico Messere Stefano pintore de Cayacia…”. Tale documento dimostra che, non solo, il nostro artista era ancora in vita negli anni quaranta del XVI secolo, godendo di grande fama e rispetto nella capitale regnicola, ma che resta, enigmaticamente, ancora un venticinquennio della sua attività su cui far luce.
Ritroviamo il nome del pittore all’interno della monumentale opera del Bénézit del 1921, Dictionnaire critique et documentaire des peintres, sculpteurs, dessinateurs et graveurs. Si tratta, tuttavia, di una brevissima menzione di scarsa utilità.
Nel 1925 il Nicolini, noto per aver pubblicato integralmente la lettera del Summonte a Marcantonio Michiel (1524), per primo evidenzia l’anacronismo annidato nella notizia del Summonte riguardo ai due “giovani de’ buona indole” e la curiosa sinteticità del Summonte nei confronti dell’arte locale successiva a Colantonio. Secondo lo studioso l’erudito avrebbe elencato velocemente solo alcune “annotazioni” sugli altri artisti locali, perché spinto dalla foga di concludere una faticosa lettera scritta dopo una lunghissima malattia che lo costrinse a letto per mesi.
Tuttavia la vena da impetuoso archivista del Nicolini fa sì che questi non riesca a spiegarsi come il Summonte abbia potuto ritenere dei “principianti” Andrea da Salerno e Stefano Sparano, invece suoi contemporanei, pur sapendo che il Sabatini nel 1524 era quasi alla fine della sua carriera (sarebbe morto infatti nel 1530), e che Sparano era in piena fase di maturazione artistica almeno un decennio prima che la lettera fosse scritta.
Gli spunti del Nicolini furono ripresi dall’Ortolani nel 1933.
Nel mastodontico dizionario di Thieme e Becker (1937), ancora, alla voce relativa allo Sparano corrisponde una menzione piuttosto stringata e fumosa.
Gli studi del Bologna, del Causa e del Previtali ci mostrano la cultura napoletana cinquecentesca, come uno scambio continuo con quella romana e collocano Napoli, la capitale del Viceregno in una dimensione paritetica rispetto ad altri centri di elaborazione artistica.
Nel catalogo curato dal Bologna, nel 1955, il pittore è letto al pari del “Maestro di Angri” (siamo ancora lontani dalla lettura che lega Sparano alla grazia peruginesca) come seguace del quadraturismo scacchesco; secondo il Bologna ne sono una prova i due polittici provenienti dal Duomo di Salerno, portati all’epoca in mostra e proposti forse come di Sparano. I polittici in questione sono arricchiti, a suo parere, dai modi umbri-emiliani importati al quel tempo a Napoli dal Ripanda (che a Napoli, attenzione, non giunse mai!). Bologna ascrive al Caiatino, quali opere della giovinezza, anche una piccola tavoletta di Oxford e due tavole in S. Maria della Carità a Napoli.
Nel 1957 Raffaello Causa riconoscerà nello stile del nostro pittore una commistione particolare tra il quadraturismo scientifico di Scacco e la predilezione lussuosa per gli ori e i decori di origine umbro-marchigiana
Il Causa, a differenza del Bologna, non attribuisce a Sparano i due polittici del Duomo di Salerno, e propone, anche se con la dovuta cautela, l’attribuzione di un’altra opera: il mutilo trittico di Montesarchio.
Nel 1963 l’erudito locale Dante Marrocco sarà d’accordo col Causa nel ritenere di Cicino le opere di Piedimonte, e ne aggiungerà notizie sulla provenienza “…da S. Giovanni vi furono portate cinque tavole rinascimentali che nel 1935 furono trasferite nell’ancora semivuota nuova chiesa di S. Maria Maggiore”.
In effetti, fu facile confondere la più antica produzione di Sparano per le cose del conterraneo, e primo maestro, Cicino. Le fastose cornici decorate con motivi a candelabre, le Vergini dai volti pieni e dalle palpebre gonfie, le espressioni dolci e le labbra a forma di cuore, i santi vestiti di stoffe che quasi sembran carta tanto son taglienti nei lembi, le attitudini leggermente arretrate rispetto al trono ma monumentali e statici nell’impacciato hanchement, son tutti elementi derivanti da un Cicino impregnato dell’autentica lezione umbro-laziale.
Nel 1972 Francesco Abbate aggiunse a Sparano sei nuove attribuzioni: la Madonnna col Bambino tra i SS. Giacomo e Margherita e l’Annunciazione, collocati nel duomo di Piedimonte Matese ; una icona nella chiesa dell’Annunziata ad Aversa raffigurante la Madonna col Bambino e le SS. Caterina d’Alessandria e Maddalena e, infine due Sante conservate nella Pinacoteca dei Gerolomini a Napoli. Stefano Sparano emerge finalmente come figura dalla personalità ingegnosa, bizzarra e sottile, la cui poetica si dispiega, nell’uso simultaneo di arcaismi tipici di Scacco e Antoniazzo, nell’interesse per Crivelli , nei profili aguzzi alla Vivarini, nei bilanciati contorni alla Perugino.
Ancora nel 1972, Giuseppe Alparone, dopo aver approfondito nel 1969 la figura del pittore Francesco Cicino da Caiazzo, estende il catalogo delle fatiche di Sparano proponendone (pur con qualche riserva!) ben nove inedite. L’Alparone legge lo Sparano ancora nell’ottica di un’adesione al linguaggio quattrocentesco; per lui l’artista è solo superficialmente toccato dal moderno stile dei bolognesi..
Un piccolo accenno al Caiatino è presente nei cataloghi d’arte regionale curati rispettivamente da Maria Pia Di Dario Guida e Grelle Iusco, si avverte qui la consapevolezza dei limiti dell’arte locale soprattutto se posta a confronto con quella campana.
Grelle Iusco ipotizza che la grande macchina d’altare di Tolve sia di uno Stefano Sparano già influenzato dai modi di Andrea da Salerno, per prima ne pubblica alcune immagini . Il citato polittico presentava inoltre, a suo dire, similitudini con un altro dipinto, conservato nel vicino Duomo di Calvello, forse anch’esso opera di Sparano o comunque riprova della sua forte influenza sugli artisti locali.
D’accordo con l’attribuzione della Grelle Iusco riguardo al polittico di Tolve, Pierluigi Leone de Castris e Paola Giusti che, nel loro testo del 1985, pongono il giusto accento sui meriti artistici del caiatino e stilano un primo organico elenco delle opere dell’artista.
Gli studiosi sottolineano che, anteriormente ai viaggi nell’Urbe, difatti, le opere del Sabatini abbondano di rimandi consistenti agli impianti del suo “avversario” Sparano.
Quando si passa dalle opere della giovinezza a quelle più mature del Sabatini (post 1520) si notano le ragioni dell’interesse maggiore che la critica dimostra nei suoi confronti rispetto a Sparano. Il cambiamento di Andrea è repentino, per cui più interessante fu per la critica cogliere la ricchezza delle sfumature e il continuo sviluppo dei suoi modi a fronte delle esili evoluzioni del collega. La quantità delle sue opere diffuse e conservatesi sul territorio è, infatti, imparagonabile rispetto a quelle di Sparano; elemento questo che gioca a favore di una maggiore conoscenza del Sabatini ancora oggi.
Leone de Castris accresce il corpus dello Sparano attribuendogli un dittico, parte di un polittico più ampio, datato sulla predella 1509, proveniente dalla chiesa di S.Agostino a Padula, rappresentante i S.Giovanni Evangelista e S.Agostino; e il trittico realizzato qualche anno prima (1507) per il monastero di SS.Sebastiano e Pietro a Napoli. Nel contempo furono espunte dal catalogo le due Sante Caterina d’Alessandria e Maddalena dei Gerolamini di Napoli.
Stefano Sparano, Madonna col Bambino in trono e i SS.Pietro e Nicola, trittico (particolare della cimasa), Annunciata, Tolve, Chiesa di S.Nicola Fu pubblicata però, per la prima volta, l’immagine della sciupatissima tavola raffigurante un S.Francesco conservata nella chiesa omonima di Caiazzo. L’Abbate cita apertamente il caiatino come artista inserito a pieno nei meccanismi della committenza lucana, soprattutto per merito della famiglia dei Sanseverino.
Stefano Sparano fu un pittore dalla grande personalità, attento, dinamico, discretamente attuale per il tempo.
Si evolse mantenendo una pregevole coerenza stilistica, e si pose al di sopra degli artisti locali coevi e del suo primo maestro Francesco Cicino.
Due sono le tranches più significative della sua attività: la prima si estende dagli ultimi decenni del XV secolo sino agli anni dieci del secolo successivo, e la seconda si dispiega dal 1510 circa in poi.
Di là dalla cronologia, del giovane pittore va apprezzato l’uso dei colori vivaci, le particolareggiate descrizioni, il delicato languore dei volti, le vesti svolazzanti e lievi, la gamma di colori aspri.
Sparano è capace di render propri, sveltendo e raffinando, gli elementi umbro-laziali senza mai scadere negli standard dei puri effetti decorativi.
Stefano Sparano, Vergine in trono coi SS.Pietro e Paolo, polittico (particolare della cimasa), Deposizione, Amiens, Musée de Picardie
Per la saturazione del mercato regnicolo decide ingegnosamente di proporre nelle zone sub-regnicole i suoi raffinatissimi retabli. Le cornici, dalla carpenteria fortemente fastosa, impaginano le opere di Tolve e di Amiens e mostrano i santi che arricciano’i pesanti manti e mostrano simboli iconografici. Vige, nei suoi quadri l’atmosfera tenue e d’incanto.
Stefano Sparano da Caiazzo creò, inconfutabilmente, col suo stile dolce e soave, una considerevole, anche se ancora dibattuta, influenza nella storia dell’arte meridionale del XVI secolo.
Diffusione delle opere d’artista sul territorio
Catalogo d’artista
I Madonna col Bambino tra i SS.Giacomo e Margherita
Piedimonte Matese, Chiesa di S. Maria Maggiore
(databile primi del XVI sec.) Cm 230 x 160; Olio su tavola
II Annunciazione
Predella. Deposizione di Cristo
Piedimonte Matese, Chiesa di S. Maria Maggiore
(databile primi del XVI sec. ); Cm 230 x 160; Olio su tavola
III Immacolata tra i SS.Giovanni Evangelista e Antonio Abate
Predella. Deposizione di Cristo
Piedimonte Matese, Chiesa di S.Maria Maggiore
(databile primi anni del XVI sec.); Cm 230 x 160; Olio su tavola
IV S. Andrea, S.Michele Arcangelo
Napoli, Chiesa di Sant’Angelo a Nilo (in deposito dal 1987 presso il complesso di S. Lorenzo Maggiore )
(databile primo decennio del XVI sec.); Cm 155 x 68; Cm 155x 75; Olio su tavola
V Madonna con Bambino e i SS. Sebastiano e Domenico; nelle cimase l’Annunciazione; nella predella il Volto di Cristo fra le SS. Teresa, Caterina da Siena, Margherita e Cecilia
Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte (prov. Napoli, chiesa SS.Pietro e Sebastiano)
1507 (documentato); Cm 260 x 175 (compl.); olio su tavola
VI S. Giovanni Evangelista, S. Agostino
Predella. Addolorata
Padula (Sa), Chiesa di Sant’Angelo
1509 (datato); Cm 240 x 193 (compl.); Olio su tavola
VII Polittico
Tolve, Chiesa di S.Nicola
(databile 1510-11); Cm 233 x 238 (compl.); Olio su tavola
Cimasa Angelo Annunciante; Cm 33 x 70 – Crocifissione; cm 57 x 72-
Annunciata; cm 33 x 70
Ordine centrale Madonna con Bambino in trono; cm 150x 73 –
S.Pietro; cm 150 x 70 - S.Nicola; cm 150 x 70
Predella S.Antonio Abate, S.Pietro cammina sulle acque, il Redentore, un Miracolo di S.Nicola, S.Sebastiano; cm 50 x 238 (compl.)
VIII Madonna in trono col Bambino
Calvello (Pz), Chiesa di S. Nicola
(databile inizi del secondo decennio del XVI secolo); Cm 120 x 93 (compl.); Tempera su tavola
IX Polittico.
Amiens, Musée de Picardie (in deposito)
Nella cimasa. Angelo Annunciante, Pietà, Annunciata
Ordine centrale. Vergine in trono tra i SS.Pietro e Paolo
Nella predella. Cristo portacroce e i Dodici Apostoli.
(databile inizi del secondo decennio del XVI secolo); Cm 333 x 208 (compl.); Tempera su tavola
X Polittico.
Portici, Chiesa di S.Antonio Abate
Vergine in trono tra i Santi Giovanni Battista e Francesco d’Assisi;
Predella. otto martiri francescani;
1513 (documentato); Cm 182 x 221; Olio su tavola
XI Sant’Andrea, S.Giovanni Evangelista
Napoli, Chiesa di S.Maria della Carità (oggi in deposito presso la Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli)
(databile primo decennio del XVI sec.); Cm 137 x 53 ciascuno; Olio su tavola
XII Madonna del Rosario con Sante Caterina d’Alessandria e Maddalena
Aversa (Ce), Chiesa della SS. Annunziata (oggi in un deposito presso la Soprintendenza BAPPSAE di Caserta e Benevento)
(databile inizi del secondo decennio del XVI secolo); Cm 350 x 200; Tempera su tavola
XIII Redentore
Napoli, Chiesa di S.Domenico Maggiore (oggi in deposito presso il convento di S.Domenico Maggiore)
(databile 1518 ca); cm 80 x 56; Olio su tavola
XIV Madonna col Bambino in trono, S.Francesco d’Assisi
Montesarchio (BN), Chiesa di S.Maria dei frati Minori
(databile inizi secondo dec
Antichi percorsi di pellegrinaggio nell'agro caiatino
Abstract
Antichi percorsi di pellegrinaggio in età medievale nell’agro caiatino.
Durante il Medio Evo l’assetto viario romano rimase pressappoco lo stesso. La strada più importante di tutto il comprensorio caiatino è la via Latina. Essa infatti si divideva in due parti fuori Teanum, si ricongiungeva di nuovo ad Alifae da dove seguiva per Telesia e Beneventum. Il primo ramo della via Latina da Teanum conduceva direttamente ad Alifae, il secondo braccio portava a Cales e Trebula quindi a Caiatia e per il territorio di Cubulteria nell’agro alifano. I due rami della via Latina erano in comunicazione tra loro e portavano aTrebula, a Saticula e a Cubulteria dalla quale una via andava verso ovest per congiungersi col primo braccio della via latina presso Bage. Questa via era selciata come la via Appia e fu ripristinata da M. Acilio che fu duumviro e curatore della via stessa come afferma un’epigrafe incisa su un marmo che una volta sitrovava presso la Basilica di san Ferdinando d’Aragona e che successivamente è andata perduta..La seconda via usciva da Cubulteria e si divideva in due parti: una per Alvignano ( le attuali vie San Ferdinando-Terminiello-Trieste-Iacobelli) saliva sulle colline del castello Aragonese e di qui portava a Trebula passando certamente per Marcianofreddo; l’altra pure arrivava nell’agro trebulano dalla località cacciapugli saliva per il castello di dragoni per Maiorano di Monte. Un’altra stada usciva da Cubulteria e portava a Caiatia seguendo più o meno l’attuale percorso provinciale 330. Ancora due strade partivano da Cubulteria e si dirigevano a nord per il ponte Anicio verso Alifae; ad est saliva per le colline della Sagliutella e conduceva a Telesia.
Il primo centro di pellegrinaggio fu la basilica di sant’Angelo in formis che sorge sulle fondamenta del tempio di Diana Tifatina e fu dedicata all’Arcangelo Michele. Prima era detta ad arcum Dianae nei documenti coevi, poi in quelli successivi ad Formas, informis, in formis. Fu donata dal principe Riccardo all’abbazia di Montecassino, fu ricostruita per volontà dell’abate Desiderio tra il 1072 e il 1087, come attesta l’epigrafe sul portale di ingresso e l’affresco dell’abside dove è rappresentato l’abate che offre l’edificio, raffigurato con un preciso modello. Probabilmente la costruzione dell’edificio è stata terminata prima delle morte di Desiderio nel 1087.
Tra Sant’Angelo in Formis e Caiazzo è posta la Chiesa di Santa Maria a Marciano a Piana di Monte Verna. Nel periodo comitale di Roberto le cronache registrano il soggiorno in loco di due importanti personaggi dell’ambiente ecclesiastico. Seguendo la cronologia, il primo a soffermarsi nel territorio della contea e nella città stessa fu papa Urbano II, che recandosi a Cajazzo nel 1093 si sarebbe fermato più giorni con tutto il suo seguito presso la chiesa di Santa Maria a Marciano dipendenza dell’abbazia benedettina di Santa Croce. Stando in Cajazzo, egli, il 3 ottobre di quell’anno spedì una bolla a Goffredo vescovo di Mileto. Altro più chiaro ed espresso segno dell’importanza che la chiesa andava assumendo sul territorio è la donazione di 13 moggi di terreno fattole da Rainulfo II, Conte di Caiazzo.Poco dopo il 1330, la chiesa di Santa Maria a Marciano fu ricostruita nel medesimo luogo ove sorgeva l’antica, ma di proporzioni più vaste e con un’architettura più armonica rispecchiante in tutto i caratteri dello stile angioino. Secondo la tradizione, la chiesa fu ricostruita da un capitano francese che, dopo un aspro combattimento in cui più volte si era trovato a contatto diretto con la morte, volle sciogliere il voto fatto alla Madonna nella situazione di pericolo. La chiesa ricostruita emula, per quanto di proporzioni molto modeste, le grandi chiese gotiche della stessa epoca che erano sorte a Napoli per volere di Roberto d’Angiò e della consorte, la regina Sancia d’Ungheria, quali S.Eligio, S.Chiara e S.Domenico Maggiore. Interessante è un affresco di una santa con la corona angioina denominata Santa Marena.Si tratta di Santa maddalena?
Qualche anno dopo, nel 1098, è rilevata nel territorio cajazzano, e precisamente a Villa Scalvia, la presenza di un’ospite ancor più illustre:Anselmo d’Aosta. Nelle vicinanze del casale di Schiavi, l’abbazia benedettina di San Salvatore di Telese aveva dei possedimenti e una dipendenza. Sappiamo che giunto in Italia, Anselmo si recò a far visita all’abate di San Salvatore, Giovanni, già monaco a Bec in Normandia.
Giunto nel monastero, a causa del caldo opprimente, egli fu accompagnato dall’abate a Sclavia dove, data l’altitudine, il clima era migliore. Qui il santo ritrovò la calma necessaria per completare la stesura
Cur Deus Homo
Durante il suo soggiorno in questo luogo Anselmo incontrò il duca di Puglia Ruggero che, trovandosi all’assedio di Capua e avendo saputo della presenza in loco dell’illustre personaggio si recò presso la grancia di Sclava. Discorrendo di Schiavi, si ritiene opportuno fornire qualche notizia relativa al periodo studiato sulla grotta di San Michele Arcangelo in Monte Melanico, poco discosta da quel luogo, in quanto si ritiene fosse tenuta in grande considerazione dai normanni, così come lo fu dai longobardi. Il culto Michaelico, come è noto, diffusosi nelle grotte meridionali a imitazione di quella del Gargano, attrasse notevolmente i primi pellegrini normanni che, stando alle cronache, di ritorno dalla Terrasanta, facevano tappa sul Gargano per venerare l’immagine del santo apparso in quella grotta. Nel territorio della contea Cajazzana già in epoca longobarda era molto rinomata la grotta di monte Melanico, detto poi monte Sant’Angelo tanto che, nell’anno 979, quando il metropolita at non dedimus vobis capuano Gerberto investì Stefano della diocesi “vestrisque successoribus Ecclesiam S. Angeli in Melanico, quam in nostra, nostrorumque successorum potestate reservamus
”. L’arcivescovo si riservava la podestà sulla grotta la cui fama aveva varcato da tempo la diocesi e in cui provenivano numerosi i pellegrini da tutto il territorio circostante. Ed infatti l’anonimo cassinese riferisce di “aver inteso che sul monte Melanico si dice esservi virtù angelica, come in San Michele aqua et saone Trifrisci mulino sito in “
Cajazzo è una cittadina con poco meno di 6.000 abitanti sita in provincia di Caserta, da cui dista 17 km, al centro della grande ansa del fiume Volturno nella parte mediana del suo corso. Il menzionato territorio è delimitato dal fiume a sud, est e nord mentre ad ovest è chiuso dalla catena pre-appenninica del Monte Maggiore .Questo territorio in età pre-romana fu colonizzato dai sanniti i quali, oltre a costruirvi numerosi recinti fortificati, che rappresentavano l’avamposto del Sannio, edificarono o svilupparono tre città che, Caiatia , Trebula e Kupelternum (o Compulteria).A invasioni barbariche avvenute,delle tre solo Caiatia rimase in piedi ed assurse a capoluogo del comprensorio attraverso l’ottenimento della sede vescovile, da cui dipendeva l’intero territorio indicato, e attraverso l’elevazione prima a gastaldato e poi a contea del principato longobardo di Capua.I dinasti longobardi della contea cajazzana appartennero sempre alla famiglia regnante capuana; pare si fregiassero di tale titolo i figli minori del principe, e ciò a partire dal nono e per tutto il decimo secolo.
Pandulfo il Franco, e Giovanni Citello fu da Riccardo creato Conte di Cajazzo Rajnulfo il Normanno nel 1070, quale Lupo Protospata nel suo Cronico, come appresso, lo chiama Rodolfo Pipino
Il Castellaneta, descrive la parte di interesse:
“Per dar principio alla descrittione delle Famiglie nobili
della Città di Caiazzo. Io incominciarò à narrare quelle cose,
che lasciò scritto Felippo de Sisto Alifano nella sua Cronica
manuscritta, il quale narra, che nell’anno 1095. alcuni
valorosi di Caiazzo, della fameglia Egittia, de Melchiori,
alias detto dello Piezzo, Planano, Prischo, Gentili, Sparani, &
Alberti passarono sotto Rainulfo Normando Conte di Caiazzo
alla Guerra di Terra Santa, ove andarono molti Prencipi
Christiani, nel qual tempo alcuni delli detti soldati
riportarono poi alla Patria superbe insegne tolte alli nimici
occisi, come tra gl’altri vi furono gl’Egittij, una testa d’un
famoso Egittio, dal qule presero poi il cognome, & i
Melchiorij detti all’hora Virginij, se recarono l’insegna d’un
Leone, ch’aveva un fave di mele in bocca, che perciò furono
detti poi Melchiori, & così tutti l’altri se ne riportarono à
Casa l’armi dell’inimico ucciso, quali presero per impresa,
portandolo sopra il Cimiero, usando anco di fare le Croci per
arme conforme havevano portate in quella guerra Santa.”
La partecipazione dei cajazzani alla crociata è ricordata anche nello stemma della città in cui è raffigurata una croce rossa in campo azzurro con ai lati della croce quattro gigli d’oro. Il Di Dario riporta dal Melchiori
per arme che il conte Rainolfo [Riccardo] tornato dalla Terrasanta, donò “lla città il segno della trionfante Croce rossa conforme lui aveva portato a quell’impresa .Di Rainolfo, non potendo dare ulteriori notizie a carattere locale,riferiamo la considerazione che ebbe in ambiente ecclesiastico, alla stessa stregua del fratello Riccardo e del nipote Giordano, principi di Capua,soprattutto da parte di Desiderio, abate di Montecassino e successivamente papa con nome di Vittore III. Tutti e tre i nominati normanni parteciparono il 1° ottobre 1071 alla consacrazione della nuova abbazia di Montecassino opera di Desiderio. Qualche anno dopo, nel 1078, Giordano e Rainolfo si recarono a Roma dove ottennero da Gregorio VII il proscioglimento dall’interdetto che il papa aveva comminato nel sinodo di quell’anno al Guiscaldo e a tutti i suoi sostenitori. Viene così avviato un rapporto privilegiato tra i normanni di
Capua e la Santa Sede destinato a durare a lungo; da questo momento i dinasti capuani, che in precedenti battaglie si erano schierati al fianco dei connazionali pugliesi, destinati in seguito alla corona meridionale,
assecondano la politica papale di freno al crescente potere della schiatta del Guiscardo. Così, immediatamente dopo l’incontro con il papa, essi fomentano la rivolta in Puglia, Calabria e Campania e solo l’intervento mediatore di Desiderio verso papa Gregorio VII, volta a favorire una nuova politica del papato nei riguardi dei normanni, consente nel 1079 la firma della pace tra i contendenti a Sarno. Il medesimo Desiderio, nel 1085, in occasione della sua elezione al soglio pontificio, chiama Giordano e Rainolfo in aiuto e al servizio della Chiesa romana.
Caiazzo, nel l’economia del pellegrinaggio, è alle dipendenze della domus capuana. Infatti la prima attestazione della domus capuana e del suo prior risale al 1179, anno in cui, in un documento di papa Alessandro III compare un Fulco Priore et fratres hospitalis de capua. Le ‘dipendenze’ della domus degli Ospedalieri attestano il rilievo conseguito dall’Ordine,sia in termini di potestà giudiziale sul territorio capuano, sia in termini di possedimenti patrimoniali legati al Priorato. L’inchiesta ordinata nel 1373 da papa Gregorio XIal fine di valutare l’entità del patrimonio giovannita, in vista di una riforma dell’Ordine,offre preziose informazioni sulla domus capuana. Nell’inedita inchiesta su Capua, infatti,oltre a numerose case nominate in documenti di età anteriore e quindi già considerate,compaiono le domus di Aiola, Altavilla Silentina, Apice, Ariano Irpino, Auletta, Avellino,Buccino, Caiazzo, Cicala, Cicciano, Contursi, Corleto, Croce, Cuccaro, Flumeri, Grottaminarda,Lauria, Maddaloni, Moliterno, Monitoro, Montesarchio, Novi Velia, Piano,Pietramelara, Policastro, Polla, Pozzuoli, Reggiano, Roccagloriosa, Sala, S. Martino, Scafati,Sessa Aurunca, Taleno, Teano, Tortorella Nell’agosto del 1260 Ruggiero de Aldemario nel redigere testamento, tra le altre disposizioni,stabilisce di donare una casa all’Ospedale di Caiazzo subdito dell’Ospedale diS. Giovanni di Capua. Nel dicembre del 1263 lo stesso Ruggiero de Aldemario destinò un’altra casa all’Ospedale di S. Cataldo, situato fuori porta S. Antonino, «quod subditumest hospitali Sancti Iohannis Iherosolimitani in Capua».1221 maggio, Caiazzo. Stanzio e Dalinboldo, procuratori e rettori della Congregazione di Caiazzo, per parte della predetta Congregazione offrono a Gaydolfo sei pezze di terra site in varie località. Si attesta una chiesa giovannita a Caiazzo (a “San Giovannifuori porta”) somparsa alla fine del XVII secolo.
Un’altra tappa del pellegrinaggio medievale è La grotta di Castelcampagnano, un piccolo centro abitato sito nel territorio casertano, in prossimità della città di Caiazzo,
Da un importante documento altomedievale risalente all'anno 979 cioè una bolla pubblicata da Michele Monaco già nel Seicento", emanata dal metropolita capuano Gerberto (978 980), con la quale si conferiva la dignità episcopale a Santo Stefano Menicillo, proclamato vescovo della diocesi di Caiazzo suffraganea dell'archidiocesi di Capua" venivano stabiliti i territori e le chiese soggette alla giurisdizione della diocesi caiatina, ".. . insuper concessi- mus ei Diocesim per has finem.. .."comprese quelle di Castelcampa-
gnano: "Sanctus Angelus et sanctus Foelix et sanctus Johannes in Campanianu".
Da questa bolla episcopale, dunque, si evince che nell'anno 979 a Castelcampagnano esistevano almeno tre edifici sacri, oggi scomparsi, giacchè l'unica chiesa tuttora esistente nel piccolo centro urbano è la settecentesca parrocchia della Madonna della Neve. È verosimile che la chiesa rupestre di Castelcampagnano sia identificabile con il "Sanctus Angelus in Campanianu" ricordato dal già
citato diploma episcopale. L'agro caiatino entro il quale situato l'abitato di Castelcampagnano risulta inoltre disseminato di oratori rupestri ed edifici subdiali dedicati all'Arcangelo Michele, quasi tutti di origine altomedievale. Dallo studio della documentazione antica, inoltre, emerge che nella sola diocesi di Caiazzo, oltre alla grotta di Castelcampagnano esistevano almeno altri due edifici di tipologia rupestre dedicati a San Michele.
Un'altra grotta dedicata all’ Arcangelo esisteva a Ruviano (un tempo chiamata Raiano), un piccolo centro abitato confinante con Castelcampagnano. Questo santuario rupestre, ricordato nelle Rationes Decimarum
del 1326, oggi non più esistente, poiché fu distrutto nel secolo scorso a seguito dell’ apertura di una cava di tufo.
Questa articolata "geografia micaelica" dell'agro caiatino dimostra dunque che la maggior parte dei santuari rupestri esistenti in questo stesso territorio reca la dedica all’ Arcangelo Michele, e che spesso le
fonti consentono di precisare che tale dedicazione rimonti all’Alto- medioevo.
Nella chiesa rupestredi castel campagnano, ci sono affreschi di santi che possono essere confrontati
Con due codici medievali prodotti nel ducato beneventano e noti alla critica già da tempo: il Pontificale pro ordinis conferendis ed il Benedizionale della Biblioteca Casanatense di Roma. il Pontificale ed il Benedizionale della biblioteca Casanatense di Roma, sono due manoscritti prodotti nella seconda metà del X secolo che, sebbene presentino certune diversità, sono generalmente ritenuti dalla critica stilisticamente affini, contribuiscono inoltre, insieme ad altri elementi, a fissare una datazione plausibile per gli affreschi più antichi di Castelcampagnano.
Si già visto, dalla documentazione antica, che la chiesa rupestre era già esistente nel 979, quando risulta nominata in un bolla di investitura episcopale. Questa data concorda, dunque, con la cronologia
indicata dagli studiosi per entrambi i rotoli della Casanatense appartenuti a Landolfo , vescovo di Benevento tra il 957 ed il 982, e costituisce altresì un utile terrninus ante quem per i dipinti murali più
antichi della grotta di Castelcampagnano che sulla base di queste considerazioni, e per via delle già citate affinità con gli affreschi vulturnensi, di cui si rivelano essere diretti discendenti, possono verosimil-
mente essere datati verso la metà del X secolo.
L'origine degli artisti che realizzarono gli affreschi di Castelcampagnano invece poco chiara. Questo modesto centro abitato, sito tra Benevento e Capua, di certo non possedeva la rilevanza politica e
culturale delle due capitali longobarde campane, senza contare che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non attestata a Castelcampagnano una tradizione pittorica consolidata di livello così eleva-
to.
Angela D’Agostino
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